Fragile umore del cardiopatico

09 febbraio 2007
Aggiornamenti e focus

Fragile umore del cardiopatico



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Come se non bastasse finire all’ospedale per malattie cardiovascolari, dal 17 al 27% di questi pazienti presenta anche sintomi di depressione maggiore. Nell’impossibilità di capire con certezza se la depressione possa essere all’origine della malattia organica, parecchi studi hanno però dimostrato che la depressione peggiora la prognosi: la mortalità, in alcune casistiche, è addirittura triplicata. Malgrado sia numericamente importante, il fenomeno non è stato oggetti di molte ricerche in cui si valutassero gli effetti di una terapia mirata dei sintomi depressivi né comparazioni tra le diverse possibilità di trattamento, vale a dire i farmaci, la psicoterapia e l’associazione dei due trattamenti.

Farmaci recenti


Va anche detto che questo indirizzo di ricerca si è aperto in tempi relativamente recenti, visto che fino all’arrivo dei nuovi antidepressivi inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI), i farmaci più spesso impiegati, i cosiddetti triciclici, erano espressamente controindicati in caso di cardiopatie. I ricercatori hanno dunque adottato uno di questi antidepressivi, per così dire, gentili, il citalopram, e hanno preparato una ricerca in cui si confrontavano tutte le possibili combinazioni: il farmaco più la psicoterapia più le normali cure cardiologiche, il placebo più la psicoterapia più le cure, le cure più il farmaco, le cure più il placebo. Complicato ma meno di quanto sembri. I risultati hanno mostrato che quando si somministrava il farmaco, effettivamente si aveva un miglioramento dei sintomi depressivi, e questo sia alla valutazione dello psichiatra attraverso un questionario sia dall’autovalutazione dello stesso paziente. Il citalopram, somministrato per 12 settimane, si dimostrava efficace sia da solo, in aggiunta alle cure mediche, sia se associato alla psicoterapia. Quest’ultima, però, da sola non mostrava di incidere sulle condizioni del paziente più di quanto facessero le cure cardiologiche in sé. Quanto agli effetti indesiderati del farmaco sulla situazione cardiologica, né la pressione arteriosa né i risultati elettrocardiografici ne venivano alterati. E’ vero che il campione era relativamente ridotto rispetto alle necessità (ne sarebbe servito uno di almeno 7.000 pazienti) il farmaco può essere considerato sicuro, soprattutto in persone che comunque vengono controllate frequentemente. Insomma, concludono gli autori, di fronte a un cardiopatico con sintomi di depressione maggiore, associare alle cure cardiologiche un SSRI può essere il primo passo logico.

Psicoterapia un po’ negletta


E la psicoterapia? Lo studio non le fa certo una gran propaganda. Di fondo, si permettano due osservazioni: in questo caso si era trattato della psicoterapia interpersonale che, dicono gli autori, è mirata soprattutto al contesto sociale della depressione, così da promuovere nella persona la sensazione di essere supportato. Cosa, però, che già fa un rapporto assiduo con il cardiologo: quanti possono dire di essere visitati settimanalmente dal proprio curante? Secondo aspetto: si parla di una seduta settimanale e chi ha avuto a che fare con la psicoterapia sa bene che non è questo l’approccio standard (con buona pace del portafoglio). Lascia un po’ stupiti, insomma, che mentre le indagini sui farmaci tendono giustamente a operare mille distinzioni tra famiglie e sottofamiglie, quando di tratta di psicoterapia “tutto faccia brodo”. Mah!
Lo studio non trae conclusioni sull’obiettivo finale di tutto questo filone di ricerca, cioè stabilire se curando la depressione si riduce la mortalità o comunque le ricadute (nuovi infarti), ma precedenti ricerche avevano dimostrato che una riduzione di circa il 42% rispetto ai pazienti non trattati anche per la depressione. Non è poco.

Maurizio Imperiali



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