Sale quanto basta

22 febbraio 2008
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Sale quanto basta



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Con un po' di sale in più in zucca e meno nel piatto diventa più semplice controllare il livello della pressione arteriosa e prevenire l'ipertensione. Sono tanti gli studi che hanno documentato che elevati consumi di sodio, introdotto principalmente come sale da cucina, fanno aumentare i valori pressori e le prove che il sale sia la causa maggiore della pressione alta sono, a questo punto, schiaccianti. E' inequivocabile anche la tendenza, registrata negli Stati Uniti, all'aumento del 50% dei consumi di sale e del 55% dell'ipertensione tra gli anni '70 e il 2000.

Modiche quantità


I dati più drammatici, probabilmente, riguardano proprio gli Stati Uniti dove solo da poco, rispetto ad altri paesi, per esempio europei, le autorità sanitarie hanno iniziato a occuparsi di questo aspetto della prevenzione e della cura dell'ipertensione. Aspetto importante anche dal punto di vista epidemiologico e di salute pubblica, dal momento che più del 27% della popolazione americana è iperteso, cioè ha valori di pressione sistolica (massima) e diastolica, rispettivamente, almeno di 140 mm Hg e 90 mmHg. In genere, in tutto il mondo, il consumo di sale oscilla tra i 2300 e i 4600 mg al giorno, circa uno o due cucchiaini da tè, negli Stati Uniti la media dei consumi si attesta sui 4000 mg al giorno per ogni 2000 kcal. Il 77% del sale assunto dagli americani deriva da cibo lavorato industrialmente o dal circuito della ristorazione, quota facilmente raggiungibile dato che una sola porzione può arrivare a contenere, rispettivamente, 1000 mg e da 2300 e 4600 mg. Ma risalgono solo al 1993 le prime raccomandazioni del National Heart, Lung, and Blood Institute che, nel programma di educazione alla prevenzione, indicavano come valore massimo di consumo 2400 mg di sodio al giorno; si sono susseguiti, poi, ulteriori rilanci al ribasso con l'obiettivo modificare le abitudini anche fin dalle fasce più giovani. Tuttavia non c'è mai stata una vera e propria pianificazione per raggiungere questi obiettivi e solo il 20% della popolazione li ha messi in atto. Una recente iniziativa promossa dalla American Medical Association (AMA), per ottenere una riduzione del 50% del contenuto di sodio nei cibi preparati, ha invece interessato le normative che regolano la produzione industriale di cibo. Poiché il sale è considerato dalla Food and Drug Administration (FDA) una sostanza sicura ("generally recognized as safe", GRAS) non ha nessuna limitazione nelle quantità che si possono aggiungere alle preparazioni e non deve esserne dato conto al consumatore. La AMA ha invece chiesto, senza per altro grande attenzione da parte dell'FDA, di ?>ritirare lo stato di GRAS, dal momento il sale che in quantità elevate nuoce alla salute. Questo significherebbe stabilire dei livelli di soglia di un additivo alimentare che vanno segnalati e approvati dalla stessa FDA.

Politiche senza sodio


In Europa esiste una tradizione più antica di prevenzione e di educazione alimentare: in Finlandia, per esempio, esiste già l'etichettatura che indica l'elevato contenuto di sale e le politiche di educazione al consumo di sale risalgono al 1970 hanno permesso di ridurlo del 40%. A questo calo è corrisposta una diminuzione di 10 mm Hg nei valori pressori medi e dell'80% della mortalità per ictus. Il Governo inglese ha invece classificato i cibi non freschi in 70 categorie calcolando per ognuna la quantità di sodio che apporta alla dieta e in 5 anni ha ridotto l'assunzione del 33%. Anche in Irlanda, Nuova Zelanda e Australia le autorità competenti collaborano con le industrie alimentari per regolamentare la produzione.
Intervenire alla fonte principale di sale è la strategia per ridurre il consumo nella popolazione perchè anche la motivazione più forte si scontra con l'onnipresenza della sostanza nei cibi non freschi (solo il 12% è contenuto naturalmente, e il 5% aggiunto in cucina). Ma la riduzione deve essere graduale proprio per abituare il gusto a sapori sempre meno sapidi, magari sostituendo il sale con altre spezie. Infine, l'introduzione di etichette, che segnalano ed evidenziano il contenuto di sodio e la sua eventuale riduzione, permetterebbero al consumatore di accorgersi di quanto sale c'è nel cibo che comprano, e quindi di prenderne consapevolezza. Un po' come i cibi con basso contenuto di grassi: ora la parola "light" si associa automaticamente a pochi grassi e quasi ogni alimento presente negli scaffali dei supermercati ha la sua versione "leggera". E anche per il contenuto di sale, il marketing di settore potrebbe dare il suo contributo alla salute.

Simona Zazzetta



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