La diagnosi in utero avvantaggia i talassemici

22 aprile 2005
Aggiornamenti e focus

La diagnosi in utero avvantaggia i talassemici



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La talassemia è una delle malattie genetiche più frequenti nell'area mediterranea e anche una tra le non molte nelle quali sono possibili interventi risolutivi. Si tratta in questo caso del trapianto di midollo osseo, al fine di restituire all'organismo la capacità di produrre eritrociti (globuli rossi) normali. Un modo per aumentare l'efficacia del trapianto consiste nell'abbinare al trapianto di cellule ematopoietiche quello delle cellule staminali, cioè quelle cellule in grado di differenziarsi in qualsiasi altra cellula somatica del corpo (globuli rossi ma, per esempio anche cellule muscolari, come sperimentato nel trattamento dell'infarto). Attualmente, tralasciando gli embrioni ottenuti in vitro, la migliore fonte di cellule staminali è il sangue presente alla nascita nel cordone ombelicali. Tornando alla talassemia, la massima efficacia dei trapianti di entrambi i tipi si ha intervenendo in giovanissima età (18-24 mesi): in questo caso la percentuale di successi si avvicina al 95%. Tuttavia non è facile trovare donatori compatibili al momento giusto e, quindi, non è possibile sfruttare appieno queste possibilità. E' il caso di ricordare che le persone affette da talassemia devono sottoporsi cronicamente a trasfusioni con una qualità di vita, quindi, decisamente compromessa.

Basta non sprecare le possibilità


Un'esperienza italiana mostra, una volta tanto, come non sia necessario mettere a punto nuove metodiche per ottenere risultati di rilievo in malattie genetiche come la beta-talassemia. All'Università di Cagliari, per la precisione al dipartimento di Scienze Biomediche e Biotecnologie e al Centro Trapianti Midollo Osseo 2° Clinica Pediatrica, sono state sfruttate in modo innovativo metodiche mature come il prelievo dei villi coriali e la tipizzazione dell'HLA. Il primo test serve a determinare, prelevando cellule fetali, se il nascituro è semplicemente portatore di mutazioni genetiche e, in questo caso della talassemia, cioè se è eterozigote per i geni incriminati, oppure se ne soffrirà inevitabilmente (omozigote per i geni della malattia). La determinazione dell'HLA (o complesso maggiore di istocompatibilità) serve invece a stabilire la compatibilità tra persone in caso di trapianto di midollo come di altri organi o tessuti.
L'idea che ha guidato i ricercatori era fornire un'alternativa all'interruzione di gravidanza alle coppie che, in seguito a consulenza genetica, avessero appreso di attendere un figlio omozigote per la malattia. Infatti, se la coppia aveva già avuto un figlio sano, con HLA identico a quello fetale, era già possibile ipotizzare il trapianto delle cellule ematopoietiche al raggiungimento del diciottesimo mese di vita. D'altra parte anche nel caso opposto, e cioè che il nascituro risulti esente dalla malattia ma la coppia abbia già avuto un figlio colpito dalla malattia, se esiste una compatibilità con il feto c'è non solo la conferma di poter procedere in futuro al trapianto di midollo, ma anche a quello di cellule staminali da cordone ombelicale. E' utile conoscere in anticipo questo aspetto anche perché purtroppo la conservazione del sangue da cordone ombelicale non è una pratica corrente, anche se si tratta di una risorsa molto preziosa.

Un'esperienza positiva


L'esperienza cagliaritana ha riguardato 49 coppie, alle quali è stato offerto questo programma diagnostico. Dalle analisi, 9 feti sono risultati omozigoti per la malattia, e tre di questi erano identici per HLA a consanguinei sani. I tre sono stati sottoposti a trapianto di midollo raggiunta l'età di 18-24 mesi e due hanno ottenuto la remissione completa, mentre il terzo ha sviluppato il rigetto a sei mesi dall'intervento.
Tra i feti risultati normali o eterozigoti, otto su 40 avevano un consanguineo malato con HLA compatibile, ma solo in 5 si è potuto procedere al prelievo di sangue dal cordone ombelicale. Una volta che i donatori hanno raggiunto i 18-24 mesi di età si è proceduto al trapianto nel consanguineo malato: tre hanno ricevuto le sole cellule ematopoietiche del midollo osseo, altri tre hanno, invece, ricevuto anche le cellule staminali, mentre due sono ancora in attesa a causa dell'insufficiente raccolta di cellule staminali. Dopo 1369 giorni di osservazione, i sei pazienti trapiantati hanno ottenuto la remissione della malattia, sia pure con un caso di malattia cronica localizzata e uno di graft-versus-host disease. Quest'ultima è la situazione opposta al rigetto; infatti non è l'organismo del ricevente che si ribella al tessuto estraneo ma è l'organo o il tessuto trapiantato a sviluppare reazioni contro"l'ambiente" estraneo.
In conclusione, un'esperienza positiva anche se, come riportano gli autori con aspetti bioetici da approfondire, visto che si potrebbe anche presentare una sorta di selezione del feto in base alle sue caratteristiche genetiche, nonché una lesione dei diritti del bambino destinato a essere donatore nei primissimi anni di vita. Molto, però, in questi casi dipende dal rapporto che il consulente riesce a stabilire con i futuri genitori. In ogni caso, come chiude l'editoriale che la rivista Lancet ha voluto dedicare allo studio italiano, questa strategia rappresenta una via per ottimizzare l'uso delle risorse in una situazione potenzialmente distruttiva per la vita del nascituro e dell'eventuale consanguineo malato. E se il termine risorse può "suonare male" in questo caso indica un'opportunità di salute da cogliere.

Maurizio Lucchinelli



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