Col pancione farmaci con cautela

21 novembre 2008
Aggiornamenti e focus

Col pancione farmaci con cautela



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Il risultato della totale assenza di farmaci specifici per la gravidanza è che nei nove mesi di attesa le donne finiscono con l'assumere molecole per le quali non è stata testata la sicurezza. L'esclusione dalla sperimentazione di questa popolazione ha degli ovvi risvolti etici, ma lascia insoddisfatti bisogni e domande e la scoperta di eventuali effetti negativi sul feto è lasciata agli studi osservazionali dopo l'immissione sul mercato (post marketing). Il risultato è che negli Stati Uniti e in alcuni paesi dell'Europa il tasso di esposizione a farmaci da prescrizione, alcuni dei quali anche di nota teratogenicità, è alto. In Norvegia è stato stimato che circa il 57% delle donne in gravidanza aveva assunto un farmaco etico (con obbligo di prescrizione) e, negli Stati Uniti, il 5% dei casi riguardava farmaci inclusi nella categoria di rischio X, stabilita dalla Food and Drug Administration per indicare che i rischi sul feto superano qualsiasi possibile beneficio. A voler estendere i dati a tutte le nazioni, bisogna tener conto delle differenze tra i sistemi regolatori e le diverse politiche di approvazione, di prescrizione e di rimborso dei farmaci. Un gruppo di ricercatori ha superato la questione conducendo un'indagine analoga con riferimento all'Emilia Romagna, che per numero di abitanti si prestava a essere rappresentativa della popolazione italiana. I dati sono stati raccolti nel database sanitario regionale e, relativamente a tutto il 2004, sono stati identificati 33.343 parti di donne con un'età media di 32 anni, in maggioranza (86%) tra i 25 e i 39 anni e, infine sono stati esclusi dall'analisi farmaci prescritti non rimborsati dal SSN italiano, quelli non soggetti a obbligo di prescrizione medica e le medicine complementari.

Percentuali a rischio


Gli autori hanno rilevato che al 70% delle donne che hanno partorito nel 2004 è stato somministrato almeno un farmaco con obbligo di prescrizione durante la gestazione, mentre nel 48% almeno un prodotto che non fossero vitamine e sali minerali. In particolare, il 41% dell'intera coorte ha ricevuto almeno un farmaco nel primo trimestre, il 49% almeno uno nel secondo e il 59% almeno uno nel terzo trimestre di gravidanza. I farmaci maggiormente utilizzati erano terapie per patologie ematologiche e per organi emopoietici (41%), seguiti dagli antibiotici per uso sistemico (37%), farmaci per l'apparato gastrointestinale e per il metabolismo (13%), per il sistema genito-urinario e ormoni sessuali (12%).In base al sistema di classificazione del rischio in gravidanza, definito dalla Food and Drug Administration, risultava, inoltre, che il 49% delle donne aveva ricevuto un farmaco per il quale non è stato dimostrato alcuni rischio per il feto (categoria A). Tuttavia una quota simile, il 48%, aveva usato farmaci per i quali studi animali non indicano rischi per il feto ma non ci sono studi controllati sulle donne, oppure sono stati osservati effetti avversi in modelli animali ma non dimostrati in studi controllati (categoria B). Nel 19% dei casi si trattava di farmaci per i quali gli studi su animali hanno dimostrato rischi per il feto ma non esistono studi sulle donne (categoria C), il 19%. In percentuali molto più basse erano farmaci con evidenze di rischio per il feto ma con benefici che potrebbero superare i rischi (categoria D), 2%, oppure con rischio fetale confermato sulla base di studi su animali o sulle donne o su case report, laddove i rischi superano chiaramente i benefici (categoria X), 1%.

La terapia continua


L'attenzione dei ricercatori si è rivolta a quella donna su 100 che ha assunto farmaci, principalmente statine e ACE-inibitori, di categoria X: rassicurante la bassa percentuale ma da spiegare il motivo della scelta, dal momento che, dicono, è difficile che un medico prescriva questi farmaci sapendo della gravidanza in corso. A meno che, non erano disponibili alternative, o molto più probabilmente, la donna già in terapia ha avuto una gravidanza non programmata e ha continuato ad assumere i farmaci prescritti senza realizzare il rischio a cui avrebbe esposto il nascituro. Oppure, ultima ipotesi, la sospensione della cura generava effetti avversi così gravi da rappresentare essi stessi un rischio, una circostanza che in genere riguarda la categoria D di molecole, come, per esempio, gli anticonvulsivanti che hanno un ruolo critico nella gestione dell'epilessia. In questi casi la coppia deve richiedere un consulto specialistico per valutare la scelta, mentre per i farmaci di categoria X il rischio è talmente chiaro da superare qualsiasi beneficio.

Simona Zazzetta



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