BSE: la speranza si chiama chinacrina?

20 giugno 2008
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BSE: la speranza si chiama chinacrina?



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Ampiamente riportata dai media come la grande speranza in fatto di BSE o di vCJD, la chinacrina è un farmaco noto da tempo e con una carriera singolare. Infatti si tratta di un antimalarico ma, in India è stato impiegato anche per indurre la sterilità nelle donne (con un bel seguito di polemiche). La sua scoperta risale agli anni 30 e deriva direttamente da uno dei primi successi della farmacologia moderna, cioè i tentativi di usare il blu di Metilene come antimalarico, ai quali si era dedicato nientemeno che Paul Erlich, il pioniere indiscusso della chemioterapia. La chinacrina è un derivato di questo colorante e, come altre sostanze analoghe, agisce impedendo la trasformazione della proteina prionica normale (quella presente fisiologicamente nelle cellule cerebrali) nella sua versione aggressiva, cioè quella che provoca l'encefalopatia spongiforme.
Non sono le sole sostanze che hanno, almeno teoricamente, questa capacità di bloccare la propagazione della proteina, ma i risultati migliori sono stati ottenuti in vitro, cioè su cellule infettate coltivate in provetta. Alcune di esse hanno mostrato la capacità di proteggere la cavia quando somministrate prima dell'infezione. Nessuna, però, aveva rivelato la capacità di impedire la propagazione del prione patogeno una volta che la malattia era in corso e tantomeno di promuovere l'eliminazione dei prioni esistenti.
Come si è detto, sono state testate diverse sostanze. Per esempio, poiché la mutazione della proteina avviene preferenzialmente in presenza del colesterolo, sono state messe alla prova anche le statine. In vitro funzionavano, ma la riduzione dei livelli di colesterolo necessaria per ottenere l'azione sul prione erano incompatibili con la sopravvivenza, quindi non sono state impiegate nella cavia o nell'uomo a questo scopo.
La chinacrina ha fatto la sua comparsa in letteratura con un ponderoso studio firmato tra gli altri da Stanley Prusiner, che delle malattie da prioni è un po' il guru. L'interesse dei ricercatori si è appuntato su queste sostanze perché hanno una proprietà fondamentale: superano la cosiddetta barriera ematoencefalica (entrano nel cervello, in pratica) con relativa facilità e, inoltre, hanno effetti collaterali ben conosciuti e sostanzialmente padroneggiabili. Nello studio di Prusiner, comunque in vitro, si è visto che la chinacrina riesce a eliminare la proteina prionica patologica e, soprattutto, presenta a livello cellulare un indice terapeutico favorevole, vale a dire che è efficace a dosaggi ancora lontani da quelli tossici. In 6 giorni l'aggiunta della chinacrina alle colture cellulari infettate ha determinato la clearance (eliminazione) della proteina mutata e, una volta eliminato il farmaco, il prione non si è ripresentato.
Fin qui il laboratorio. E la clinica? I dati disponibili sono episodici e contrastanti: in una paziente britannica, che si sospettava soffrisse della variante umana della BSE, la terapia con chinacrina e clorpromazina (altra sostanza della famiglia usata da tempo come antipsicotico), ha manifestato la remissione della malattia nella scorsa estate. Non è accaduto lo stesso a un paziente americano, curato a San Francisco, che però era affetto dalla classica forma umana dell'encefalopatia, cioè il morbo di Cretuzfeld-Jacob. Come che sia è dall'autunno scorso che in Gran Bretagna si sta preparando un trial clinico in piena regola. Lavoro che non sarà facile, non fosse altro che per il fatto che sono ben pochi i pazienti affetti dalla variante umana della BSE, e che quindi ci si dovrà rifare soprattutto ai pazienti affetti dal Creutzfeld-Jacob.

Maurizio Imperiali



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