Lavare il sangue dai prioni

05 gennaio 2007
Aggiornamenti e focus

Lavare il sangue dai prioni



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Ha suscitato qualche sgomento la notizia, sul finire dell’anno scorso, che erano stati provati i primi casi di contagio di variante umana della BSE attraverso trasfusioni di sangue. Magari la cosa non ha avuto molta risonanza nell’opinione pubblica, ma certo per le autorità sanitarie è una fonte di preoccupazione, soprattutto considerando i costi che alcuni paesi, in particolare la Gran Bretagna, hanno sostenuto per limitare la diffusione tra gli animali. Allarme sostenuto anche dal fatto che i casi di contagio (tre finora) sono stati orginati dal sangue di persone ancora asintomatiche, quindi la via di trasmissione appare molto efficiente. Il rischio non è stato mai sottovalutato, come ben sa chi ha esperienza di donazione di sangue: nei questionari viene infatti sempre chiesto se si è soggiornato all’estero per lunghi periodi, così da eliminare dalla donazione chi è stato potenzialmente sposto al contagio. Questa, però, è una via perseguibile in Italia o in Francia, dove la BSE ha avuto una diffusione scarsa o nulla, ma diventa impraticabile, ricorda un recente studio, quando si ha a che fare con popolazioni in cui la maggioranza è stata potenzialmente esposta, come, appunto, la Gran Bretagna.

Bastano quantità minime


Quindi, a meno di azzerare le scorte di sangue ed emoderivati, e nell’impossibilità di procedere a test individuali, la soluzione era mettere a punto una procedura che permettesse di rimuovere l’agente infettivo dal sangue donato: tutto il sangue. Compito non facile perché il prione, cioè l’agente in questione, è una piccola proteina e le procedure che inattivano le proteine sono le stesse che renderebbero inutilizzabile il sangue (tutti i tessuti umani sono fatti di proteine); inoltre il contagio è possibile con concentrazioni molto basse della proteina prionica; la soluzione, quindi andava cercata in un sistema di filtrazione “intelligente”, capace di agganciare i primi ma senza danneggiare le cellule ematiche. In effetti esisteva già una procedura in grado di ridurre la contagiosità del sangue, la leucoriduzione o asportazione dei globuli bianchi, ma questo consentiva di ridurre la contagiosità in una misura inferiore al 50%. Anche perché il prione patogeno non è associato soltanto ai globuli bianchi, ma è presente anche nel plasma, e si associa anche ai globuli rossi. Si è quindi pensato di ricorrere a sostanze specifiche chiamate ligandi, resine in grado di legarsi alle proteine prioniche, sia quelle patogene, sia quelle normali enormemente più abbondanti, così da ripulire completamente il sangue. Impresa non facile perché le resine in questione non dovevano danneggiare le diverse componenti del sangue.

Prove in vivo positive


Individuata la resina adatta, anzi due, il sistema è stato sperimentato grazie a criceti contagiati dallo scrapie, la versione ovina della BSE, che hanno funto da donatori di sangue per altri criceti sani. Sono stati messi a confronto il sangue sottoposto a leucoriduzione e quello filtrato attraverso le resine. Quindici delle 99 cavie che avevano ricevuto il sangue sottoposto alla sola leucoriduzione hanno sviluppato la malattia, mentre questo non si è verificato in nessuna della cavie cui è stato trasfuso il sangue sottoposto alla filtrazione completa. Il termine fissato erano i 540 giorni di incubazione riscontrati per la malattia. Per il sistema è stato altresì determinato il parametro principale, cioè il rapporto tra volume della resina e volume del sangue da trattare: 2 ml per 50 ml di sangue. La ricerca, quindi si è conclusa positivamente e si apre dunque la possibilità di rendere sicure le trasfusioni, senza ricorrere a procedure individuali ma, per così dire, una volta per tutte.

Maurizio Imperiali



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