Sostituire non basta

21 aprile 2006
Aggiornamenti e focus

Sostituire non basta



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Come in molte situazioni in cui una parte dell'organismo smette di produrre una sostanza importante per la vita, anche nel Parkinson la terapia si basa sulla sostituzione, cioè sul fornire dall'esterno la sostanza mancante. In questo caso si tratta della dopamina, un neurotrasmettitore. La possibilità di ricorrere alla sostituzione è relativamente recente: risale infatti ai primi anni settanta la disponibilità della levo-dopa, un precursore della dopamina. La levodopa, in definitiva, si trasforma in dopamina quando raggiunge il cervello. Somministrando la levo-dopa si ha il regresso dei sintomi motori, in quanto si ristabilisce il funzionamento dei meccanismi minati dalla malattia. Sfortunatamente, la levo-dopa incontra nell'organismo alcuni ostacoli, che fanno sì, dopo un certo periodo di somministrazione, l'efficacia del trattamento diminuisca. Al centro di questo fenomeno c'è la degradazione della sostanza, che non è stabile nel sangue; ogni ora e mezza il suo livello si dimezza, conducendo alla ricomparsa dei sintomi. E' questo fenomeno che porta alle cosiddette fluttuazioni, cioè l'alternarsi nel paziente trattato di momenti in cui i sintomi non ci sono (fasi On) e altri in cui si presentano malgrado il farmaco (fasi Off). La breve persistenza della levo-dopa nel sangue non è l'unico fattore in causa, in quanto hanno un ruolo la progressiva riduzione della capacità di deposito di dopamina cerebrale e la modificazione dei recettori post-sinaptici dei nuclei della base, cioè delle strutture su cui la dopamina deve andar ad agire.

Gioco di enzimi


La forte riduzione dei livelli di levodopa è dovuta soprattutto all'azione di enzimi che la degradano. Per ovviare alla situazione, è intuibile che non si possono aumentare le dosi oltre un certo limite, ragion per cui la ricerca farmacologica si è rivolta all'uso di sostanze che potessero preservare l'efficacia della levo-dopa. I primi farmaci che vengono associati alla levodopa per ripristinarne l'efficacia originale sono la carbidopa o la benserazide, inibitori della dopa-decarbossilasi, un enzima che determina la produzione periferica, cioè non nel cervello, della dopamina, fenomeno che conduce ad alcuni effetti collaterali come la nausea e il calo di pressione quando la persona è in piedi. Con il progredire della malattia però anche questa soluzione risulta insufficiente: nell'organismo è presente un secondo gruppo di enzimi, le COMT (catecol-O-metiltransferasi). Queste entrano in azione quando gli enzimi precedenti hanno già svolto la loro azione, cioè la decarbossilazione , e sono in grado di trasformare la levodopa in un composto inattivo (3-O-metildopa), che non può essere nuovamente convertito in dopamina e con un'emivita di circa 15 ore, che ne causa l'accumulo nel plasma fino a raggiungere concentrazioni diverse volte superiori a quelle della levodopa. Questa sostanza non solo non è utile nel trattamento della malattia di Parkinson, ma può anche competere con la levodopa stessa per il passaggio attraverso la barriera ematoencefalica e il conseguente ingresso nel cervello.

Impedire la degradazione


Di qui la necessità di ricorrere anche a un inibitore di questo secondo gruppo di enzimi. Infatti, la co-somministrazione di un inibitore delle COMT, a livello periferico, impedisce la formazione di 3-O-metildopa, aumenta l'emivita plasmatica della levo-dopa e ne incrementa la biodisponibilità, senza aumentarne la massima concentrazione nel sangue. Come risultato, la levo-dopa dura più a lungo nel plasma, e può raggiungere il cervello in quantità superiore, senza causare effetti collaterali. A livello centrale, l'inibizione delle COMT riduce la degradazione della levo-dopa nel cervello, potenziandone l'effetto.Attualmente esistono un inibitore periferico delle COMT, l'entacapone, e un inibitore centrale e periferico nel contempo, il tolcapone.L'aggiunta del tolcapone alla terapia ha dimostrato di ridurre significativamente le fluttuazioni e, dopo un temporaneo ritiro dal mercato europeo per timore di effetti collaterali, è stato riammesso alla prescrizione, a carico del servizio sanitario, una volta dimostrato che non ha gli effetti indesiderati temuti (a carico del fegato).

Gianluca Casponi



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