Scosse terapeutiche

27 gennaio 2006
Aggiornamenti e focus, Speciale Depressione

Scosse terapeutiche



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La depressione è spesso indicata come una delle principali ragioni di ricorso al medico e, secondo l'Organizzazione mondiale della Sanità, è destinata a salire in questa classifica. Le opzioni terapeutiche sono molte, ormai, e non se ne discute più soltanto tra psichiatri. Ecco allora che anche una rivista come Lancet, che specialistica non è, dedica un lungo articolo, nella sezione "Controversie", al trattamento della depressione. Trattamento che, per inciso, sembrerebbe riguardare una minoranza delle persone che ne avrebbero bisogno: secondo un'indagine a campione relativa all'Unione Europea, solo il 25-38% degli uomini e il 21-30% delle donne che rispondono ai criteri diagnostici della depressione hanno ricevuto cure specifiche negli ultimi 12 mesi. Sì, ma poi, quali cure? E con quali percentuali di successo. La rassegna condotta dagli autori non trascura nessun aspetto, in primis la psicoterapia nelle sue diverse forme, a cominciare da quella oggi più spesso impiegata, cioè quella cognitivo-comportamentale. Correttamente, per questo approccio si riportano tutti i successi ottenuti da questa psicoterapia, compreso il fatto che abbia dimostrato di ridurre le ricadute a lungo termine. Però, malgrado si ammettano questi risultati, si contrappone il singolo studio in cui il farmaco si è dimostrato superiore, oppure quello in cui associare farmaco e psicoterapia non ha dato risultati superiori al farmaco da solo.

Quanto al farmaco....


Visto che i due autori dell'articolo sono britannici, il loro esame di questo aspetto è partito dalle linee guida del NICE (National Institute for Clinical Excellence), che sul tema hanno una posizione ben chiara, e secondo l'articolo, troppo netta. Secondo il NICE, infatti, per le forme lievi non sarebbe opportuno iniziare subito il trattamento con il farmaco, e negli altri casi all'uso degli antidepressivi andrebbe preferibilmente associata la psicoterapia. Secondo gli autori questo atteggiamento è il segno di una tendenza più generale: mentre un tempo le scelte si facevano sulla base principalmente dell'efficacia, oggi si ha quasi più attenzione ai possibili (probabili?) effetti avversi dei trattamenti. Un atteggiamento dunque conservativo e a volte, come a loro avviso in questo caso, eccessivamente prudente. Effettivamente uno degli effetti collaterali più temuti, e probabilmente a torto, degli antidepressivi di ultima generazione è l'aumento delle ideazioni suicidarie (pensare a togliersi la vita), ma è vero, come si sostiene nell'articolo, che questo non è necessariamente l'anticamera di un reale tentativo di suicidio. L'altro aspetto, cioè i sintomi che si possono presentare alla sospensione del farmaco, sembra essere sopravvalutato, oltre a essere comune a molti tipi di farmaci, e comunque nulla ha a che vedere con la dipendenza. Gli antidepressivi, dunque, restano per gli autori la colonna portante del trattamento della depressione.

Ritorna l'elettroshock?


La vera sorpresa, però, viene dal capitolo riservato alla "terapia fisica" della depressione. Qui, senza troppe perifrasi, si sostiene che la terapia elettroconvulsivante (TEC), "malgrado la diffidenza dei medici e del pubblico, resta il trattamento più efficace per la depressione, soprattutto nei casi in cui siano presenti sintomi psicotici, quali delusione e allucinazioni". La TEC, per inciso, è in sostanza l'elettroshock, che fu inventato da un italiano, il neurologo Ugo Cerletti, negli anni trenta e consiste nel far transitare una corrente elettrica attraverso il cranio. Buona parte della cattiva fama del trattamento dipende dall'uso coatto e punitivo che della TEC venne fatto nei manicomi (chiamiamo le cose con il loro nome). Eseguita senza anestesia, spesso la TEC provocava fratture dovute agli spasmi e alle convulsioni indotte dalla corrente. E' chiaro che oggi le modalità di intervento sono diverse: si usa l'anestesia, si usano miorilassanti (curaro) e anche le modalità di somministrazione della corrente sono ben più controllate. Che ne dicono gli psichiatri italiani? "Quando si tratta di attuare trattamenti invasivi è d'obbligo la massima prudenza, a maggior ragione quando si tratta della psichiatria" dice Carmine Munizza, past president della Società Italiana di Psichiatria e direttore del Dipartimento di salute mentale dell'Asl4 di Torino. "Non è il caso di dare risposte ideologiche: sarebbe troppo facile respingere tutto con sdegno. Anche all'interno della Società di questi aspetti si sta discutendo, le prove che vengono avanzate devono essere esaminate con attenzione, per accertare che gli studi condotti siano consistenti. Si tenga presente che, in Italia, non abbiamo esperienze di questo tipo e, quindi, massima cautela nel giudicare. E anche massimo rispetto per la volontà e la dignità del paziente". Peraltro, in Italia una circolare del Consiglio superiore di sanità, datata 1997, riafferma a chiare lettere che un tale trattamento, ancorché possibile, può essere attuato soltanto dopo aver ottenuto il consenso informato del paziente e solo dopo che tutte le altre possibilità si sono dimostrate inefficaci. E solo se il paziente corre davvero il rischio di commettere un suicidio. Però, sarà che si vede la cosa da profani, fa un po' impressione pensare che mentre si cercano i più fini meccanismi molecolari del neurone, da un'altra parte si proceda con stimolazioni elettriche per forza di cose casuali.

Maurizio Imperiali



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