Riportare ritmo nel cuore

10 settembre 2010
Aggiornamenti e focus

Riportare ritmo nel cuore



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di Simona Zazzetta

Un cuore che batte fuori tempo è un problema clinico importante da risolvere anche quando non è ancora sintomatico. È il caso della fibrillazione atriale la cui comparsa, magari episodica (forma parossististica) può passare inosservata. Di questo disturbo si è occupata la Società europea di cardiologia (Esc), nel recente congresso annuale tenutosi a Stoccolma, in occasione del quale sono state presentate le nuove linee guida, un "libretto delle istruzioni", consegnato ai medici, per riportare il battito del cuore al suo ritmo normale, chiamato ritmo sinusale.

L'obiettivo del trattamento, soprattutto nei casi di recente insorgenza, poiché nelle fibrillazioni atriali permanenti la gestione prevede decisioni più complesse, è ripristinarne la regolarità, vale a dire operare una "cardioversione". Si può procedere somministrando farmaci o utilizzando una corrente elettrica. Nella gestione farmacologica, per l'appunto vanno valutati alcuni aspetti, poiché i farmaci antiaritmici si usano nelle prime ore dall'inizio della fibrillazione atriale, ma non sono efficaci in tutti i casi. La cardioversione elettrica, che consiste nell'erogare una scossa, può essere applicata con un dispositivo esterno appoggiato sul torace, ma richiede una breve anestesia generale, in quanto comporta dolore. In alternativa, per chi non può essere sottoposto ad anestesia generale. la scossa elettrica di lieve entità può essere erogata attraverso appositi cateteri, introdotti attraverso una vena, in anestesia locale, sotto controllo radiografico (cardioversione elettrica interna o endocavitaria). In questo caso il paziente viene solo leggermente sedato. A questi interventi segue, in associazione agli antiaritmici, una terapia con farmaci anticoagulanti per abbassare il rischio di formazione di trombi di sangue negli atri e quindi di rendere meno probabile un'embolia cerebrale che provoca l'ictus. Questi farmaci sono molto importanti, quando non si riesce a impedire le recidive di fibrillazione atriale, soprattutto nei pazienti con alto rischio di embolie.

Quando la fibrillazione atriale è permanente, vale a dire quando non è più possibile ripristinare il ritmo sinusale, le linee guida pongono due obiettivi: il controllo della frequenza cardiaca e la riduzione del rischio di ictus ischemico. Il primo si ottiene rallentando la frequenza cardiaca con farmaci beta-bloccanti o calcio-antagonisti, che riducono la frequenza di conduzione degli impulsi elettrici al ventricolo e quindi di rallentare il ritmo. Il rischio di ictus, anche in questi casi, viene affrontato con la terapia anticoagulante. Solo in alcuni casi selezionati si può intervenire con ablazione, cioè il rilascio di calore, in corrispondenza del punto in cui originano gli stimoli che alterano il ritmo degli atri, che "brucia" l'area che scarica i segnali alterati. Purtroppo spesso questo trattamento va ripetuto e può essere caratterizzato da una serie di complicazioni.

La scelta dei farmaci, nel trattamento della fibrillazione atriale, viene fatta secondo il criterio del bilancio rischi-benefici, che per quanto riguarda gli antiaritmici è sempre stata abbastanza sfavorevole, dal momento che il farmaco più efficace disponibile, l'amiodarone, presenta potenziali effetti collaterali importanti a carico della tiroide, del nervo ottico e della cute. Per questo motivo, gli esperti dell'Esc hanno fatto una scelta importante, indicata con chiarezza nelle linee guida: "nella terapia antiaritmica si raccomanda di scegliere il farmaco più sicuro sebbene potenzialmente meno efficace, prima di ricorrere a quello più efficace ma meno sicuro". Una raccomandazione particolarmente importante per i pazienti in cui la fibrillazione ricompare episodicamente, magari asintomatica, ma sui quali è fondamentale intervenire per prevenire i rischi di icuts.



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