Parkinson, i sintomi che anticipano il tremore

25 novembre 2011
Aggiornamenti e focus

Parkinson, i sintomi che anticipano il tremore



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Sono 500mila i neuroni che muoiono in ognuno dei due nuclei cerebrali della sostanza nigra (o nera) quando una persona viene colpita dalla malattia di Parkinson. Si tratta di una degenerazione lenta e progressiva, cui il cervello inizialmente pone rimedio con meccanismi di compensazione, ed è proprio per questo motivo che la perdita ha inizio parecchi anni prima che si manifestino i sintomi motori tipici della malattia e che si arrivi a una diagnosi corretta. Questi, infatti, comprendono il tipico tremore a riposo, in genere di un arto, la bradicinesia, vale a dire un ritardo (o difficoltà -acinesia) nell'iniziare un movimento e un rallentamento nella sua esecuzione e, infine, rigidità dovuta all'aumento del tono muscolare.

«Il cervello nasconde la malattia per un certo periodo di tempo e così sintomi clinici tardano a comparire» spiega Ubaldo Bonuccelli, presidente della Limpe (Lega italiana per la lotta contro il Parkinson, le sindromi extra piramidali e le demenze) che promuove la Giornata nazionale dedicata all'informazione sulla malattia, il 26 novembre. E aggiunge «Tuttavia, poiché altre strutture cerebrali, diverse dalla sostanza nigra sono coinvolte, questo interessamento può dare sintomi aspecifici che precedono quelli tipici del Parkinson e che devono fa sollevare il sospetto». Si può, infatti, dicono gli esperti avere una diagnosi premotoria osservando fenomeni come la perdita dell'odorato, depressione, stipsi, inespressività del volto e disturbi del comportamento del sonno Rem. «Spesso sono i partner che dormono accanto al paziente ad accorgersene, poiché ricevono colpi involontari durante la notte in quanto la persona mette in atto il contenuto dei sogni» spiega Bonuccelli «fenomeno che non accade nei soggetti sani che con il sonno staccano l'attività cerebrale da quella motoria». Cogliere questi segnali e riconoscerli permette di anticipare quelli motori e di iniziare a intervenire per ritardare lo sviluppo della malattia, anche se per ora si tratta solo di un'area di ricerca aperta e ci sono solo alcuni farmaci, gli inibitori delle monoaminoossidasi di tipo B (MaoB), non particolarmente efficaci, che rallentano il decorso, ma non lo bloccano.

Considerando, invece, la disponibilità attuale di farmaci sintomatici, cioè che sostituiscono il neurotrasmettitore dopamina, carente perché prodotto dai neuroni persi, è importante arrivare a una diagnosi precoce sui sintomi motori. «Non ci sono esami specifici per scoprire la malattia di Parkinson» sottolinea l'esperto «si tratta di una diagnosi clinica, che deve porre uno specialista. Ma sono ancora troppi i pazienti che perdono tempo prezioso, con un anno o un anno e mezzo di ritardo, poiché si rivolgono ad altri specialisti, all'ortopedico, per esempio, e non a un neurologo, il quale se ha esperienza con la malattia è in grado di riconoscerla subito». Il trattamento si basa sulla somministrazione di levodopa, precursore naturale della dopamina, o di agonisti della dopamina che simulano l'effetto della sostanza. «Entrambi i farmaci hanno dei problemi, però» aggiunge Bonuccelli «il primo, dopo alcuni anni di terapia, genera un effetto di tolleranza e la sua efficacia ha una durata limitata a poche ore, e nel tempo si crea anche una sensibilizzazione del paziente». In pratica, il paziente recupera la funzione motoria, ma compaiono fluttuazioni nella capacità motoria e movimenti involontari (discinesia). «I dopamino-agonisti, dal canto loro» aggiunge «nel tempo perdono di efficacia e possono dare origine a disturbi del comportamento come gioco d'azzardo, aumento della libido. In generale, i farmaci agiscono in modo corretto ed efficace nei primi 7-8 anni, poi iniziano a dare problemi. Ed è anche per questo motivo» ricorda Bonuccelli «che se ne ritarda l'impiego nei pazienti giovani». Sono in sperimentazione nuovi farmaci, alcuni dei quali sono arrivati anche a una fase avanzata della loro messa a punto, tra questi un antagonista dell'adenosina, un componente del caffé, e altri come il tabacco e le 200 sostanze che contiene, su cui si sta ancora lavorando. «Studi epidemiologici hanno osservato che chi fuma e beve caffé ha meno probabilità di ammalarsi» dice Bonnuccelli che però puntualizza: «ma questo non significa affatto che fumare faccia bene, perché è la prima causa di tumore al polmone. Mentre, invece, è stato dimostrato che un'elevata attività motoria previene la malattia di Parkinson ed è indicata anche per i malati, poiché migliora la risposta dell'apparato muscolo-scheletrico». Infine, è bene prestare attenzione all'esposizione professionale ad alcune sostanze come i pesticidi e i solventi, che rappresentano un fattore di rischio ampiamente riconosciuto per le patologie neurodegenerative.

Simona Zazzetta



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