Autismo: nuovi farmaci all’orizzonte

25 ottobre 2013
Interviste

Autismo: nuovi farmaci all’orizzonte



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È poco noto, ma l'autismo non è più un disturbo raro come una volta. Oggi colpisce 1 bambino su 88. Che cosa è? È un disturbo caratterizzato da un gruppo di disordini dello sviluppo cerebrale, causati da una combinazione di geni e influenze ambientali e rinchiude il malato in un mondo personale e distaccato dagli altri, che preclude l'accesso comunicativo e relazionale. Chi ne è colpito, manifesta quella che viene definita la triade del comportamento autistico: lo sviluppo anomalo o deficitario dell'interazione sociale, gravi difetti di comunicazione e una marcata ristrettezza del repertorio di attività e di interessi.

«Vent'anni fa c'erano pochi studi sull'autismo» spiega Antonio Persico «oggi sono invece molti di più. L'autismo è una di quelle patologie su cui la comunità scientifica si è più focalizzata e abbiamo fatto giganteschi passi avanti. È una patologia complessa perché eterogenea come l'epilessia o la disabilità cognitiva, tutte patologie a cause molteplici, quindi la difficoltà terapeutica è quella di andare a individuare, all'interno di questo grosso calderone, quali cure per quali pazienti».

Antonio Persico, professore di Neuropsichiatria Infantile al Campus Bio-Medico, è lo scienziato che rappresenta l'Italia all'interno dell'European autism interventions (Eu-Aims), uno studio per lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici contro i disordini dello spettro autistico (Asd) che vede coinvolti quattordici centri universitari e di ricerca europei, aziende farmaceutiche riunite nella European federation of pharmaceutical industry associations (Efpia) e la più grande organizzazione mondiale per la lotta a questa patologia, l'Autism Speaks. «Le nostre conoscenze scientifiche» spiega Persico «hanno finalmente raggiunto la massa critica necessaria per passare alla loro traduzione in metodi diagnostici e in agenti terapeutici innovativi».

Qual è il punto della ricerca clinica?
«In questo momento c'è una mezza dozzina di farmaci che è in fase finale di studio. La cosa importante da sottolineare è che si tratta di farmaci mirati a colpire i sintomi cardine dell'autismo. Non sono quindi farmaci pensati per i sintomi di accompagnamento, come agitazione, insonnia o altro, ma l'attenzione è puntata proprio sui deficit nucleari cardine dell'autismo, ovvero il deficit di socializzazione, il deficit di comunicazione, verbale e non verbale, i comportamenti stereotipati ripetitivi e l'aderenza a schemi mentali fissi. Questi farmaci danno molta speranza».

Quindi fra poco la scienza potrà vincere questa battaglia?
«Non proprio. C'è ancora una difficoltà. Il problema di questi studi è che, siccome l'autismo è una malattia molto eterogenea, purtroppo è scontato che nessuno di questi farmaci potrà funzionare con tutti i pazienti. È necessario quindi identificare i diversi sottogruppi di pazienti che abbiano la possibilità di rispondere al farmaco x o a quello y. Questi sono farmaci che funzionano con meccanismi di azione molto diversi.

Quindi il lavoro che stiamo facendo adesso, sia noi come gruppo sia il consorzio europeo Eu-Aims, è un lavoro di identificazione. Dobbiamo cioè costruire un panel di identificazione dei diversi sottogruppi di pazienti attraverso dei biomarcatori. Da quelli genetici sino ai biomarcatori di altro tipo che comprendano anche neurofisiologia, immagini cerebrali, neuropsicologia, ecc. in modo da potere definire quali sono i pazienti che hanno una maggiore probabilità di rispondere a uno di questi farmaci.

Possiamo dire, impropriamente, che ora state effettuando una mappatura dei diversi sottogruppi?
«Esatto. L'individuazione dei biomarcatori, e quindi dei sottogruppi, ci potranno permettere una diagnosi molto precoce. La nostra speranza è addirittura alla nascita. Ma quantomeno darebbero al medico una stima del rischio o una stima di probabilità di risposta a un certo trattamento. Perché a secondo del sottogruppo i trattamenti riabilitativi possono migliorare tantissimo o molto poco. Quindi si tratta di caratterizzare i diversi sottogruppi in base alle caratteristiche neurobiologiche, ma anche sulla base delle diverse caratteristiche cliniche».

A quanto si capisce il lavoro di ricerca, per intenderci di "mappatura", è ancora difficoltoso e lungo.
«I rischi degli studi in corso sono determinati dal fatto che se non contengono questi biomarcatori i test sui farmaci potrebbero dare dei risultati falsamente negativi e quindi alcuni farmaci potrebbero essere etichettati come non validi perché sperimentati su pazienti che non possono reagire a quel tipo di farmaco oppure perché i pazienti che rispondono molto bene a quel tipo di farmaco sono solo 10 su 100. E quei 10 non spostano la curva statistica. Ma sarebbe un peccato perdere il risultato positivo dato da quel farmaco anche su un campione piccolo di pazienti. Quindi è davvero indispensabile individuare le caratteristiche delle anomalie presenti, dal genoma fino alle anomalie cerebrali per capire quali sono i diversi sottogruppi di pazienti».

E per ogni sottogruppo trovare la risposta.
«Sì, con i marcatori per il riconoscimento precoce, i marcatori di crescita, i marcatori di evoluzione prognostica, i marcatori di risposta terapeutica. In modo che un giorno tramite non solo l'osservazione clinica come facciamo oggi, ma anche tramite un esame del sangue o un esame neuro radiologico saremo in grado di dire: a questo bambino serve questa terapia per questo periodo di tempo».



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