Cuore salvato ma entro il 90°

15 dicembre 2006
Aggiornamenti e focus

Cuore salvato ma entro il 90°



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Nel trattamento dell'infarto c'è un numero magico: 90. Sono i minuti entro i quali chi arriva al pronto soccorso deve essere avviato al trattamento, che oggi è principalmente l'angioplastica percutanea, cioè la dilatazione meccanica del vaso occluso. Quest'ultima è l'opzione primaria, ormai, ma anche il ricorso al palloncino (balloon, in inglese) risente come le altre strategie di un fattore chiave: il tempo in cui il paziente arriva al laboratorio di cardiologia. Tanto che negli Stati Uniti si parla di door to balloon time, tempo che trascorre tra l'ingresso in ospedale e l'arrivo al laboratorio di cardiologia, tempo che, appunto deve essere al massimo di 90 minuti.

Medie un po' troppo alte


Nemmeno negli Stati Uniti questa è la regola ma, almeno, si studia perché questo accade. Così un gruppo di ricercatori ha interpellato 500 ospedali dotati di strutture di cardiologia interventistica per stabilire quanto tempo attende, in media, il malcapitato colpito da infarto. A rispondere sono stati 365 ospedali, campione comunque rappresentativo e il dato non è eccezionale: la media è di 100 minuti con una deviazione standard di 23 minuti circa, vale a dire che l'attesa varia da 77 minuti (e va bene) a 123 (e va male). Ma i ricercatori non si sono fermati qui: hanno anche valutato quali siano gli ostacoli organizzativi che rallentano l'intervento, isolando 28 elementi chiave. Per esempio, è molto significativo l'effetto di poter allertare il cardiologo interventista direttamente da parte del medico del pronto soccorso, senza passare dalla consultazione con un cardiologo: il medico dell'accettazione guarda il tracciato elettrocardiografico e avvia la procedura. In questo modo si risparmiano 8,2 minuti. Se poi nell'ospedale è sempre presente un team di cardiologia interventistica, i tempi si riducono ulteriormente. Un'altra misura molto utile è avviare la procedura quando il paziente è ancora in ambulanza, grazie alla trasmissione dei dati elettrocardiografici. Un altro accorgimento vantaggioso è avere un singolo operatore che grazie a una sola chiamata con il pager (il cercapersone che negli Stati Uniti è per molti aspetti più diffuso del cellulare, a ragione) può far accorrere sia il cardiologo operatore sia il resto dello staff che attua la cateterizzazione.

A volte non serve molto...


Nel commentare i risultati, c'è un certo pessimismo da parte degli autori: anche se non è un accorgimento costoso, solo il 14% degli ospedali partecipanti allo studio ha adottato la chiamata singola per cardiologo e staff, e solo il 23% degli ospedali ha disposto che sia il medico del pronto soccorso a dare il via alla procedura: gli altri chiedono che vi sia un consulto preventivo con un primo cardiologo, diverso da quello che poi effettuerà l'intervento. Non che la situazione sia priva di giustificazioni: avere sempre in ospedale, sul posto, un'equipe interventistica di guardia non è privo di costi economici (si parla della notte e dei giorni festivi), così come avere una formazione adeguata del personale medico del pronto soccorso, che non è necessariamente formato da cardiologi o rianimatori (ER insegna). Una formazione specifica è infatti fondamentale per riconoscere le situazioni in cui è obbligatorio il ricorso all'angioplastica, vale dire l'infarto con elevazione del segmento ST.
Però, per quante giustificazioni si possano trovare, la direzione alla quale si deve tendere è quella. Anche perché, come ricorda un editoriale di commento, i tribunali cominciano a tenere presente anche questo aspetto nel giudicare delle responsabilità degli ospedali, come prova il caso della di una sentenza dell'Illinois, dove il coroner ha giudicato che la morte di un paziente infartuato che ha atteso due ore la diagnosi e l'intervento poteva essere considerata omicidio, sia pure colposo.

Gianluca Casponi



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