Antinfluenzale più forte per l'anziano?

10 novembre 2006
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Antinfluenzale "più forte" per l'anziano?



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L'enfasi sul rischio "aviaria", per ora teorico in Occidente, non dovrebbe portare a sottovalutare quello invece reale legato ogni inverno all'influenza "classica", che per categorie più vulnerabili può significare ben più di qualche giorno di febbre e disturbi vari. Sono soprattutto gli anziani, per i quali è fortemente raccomandata la vaccinazione, consigliata a malati cronici e anche bambini e personale di assistenza, a correre i maggiori pericoli per le complicanze dell'infezione, in primo luogo la polmonite: oltre il 90% delle morti legate all'influenza riguarda ultra 65enni. Il vaccino è l'arma migliore per ridurre fortemente la mortalità e i ricoveri (e relativi costi) negli anziani, ma proprio nei soggetti più a rischio la sua efficacia non è ottimale perché con l'avanzare dell'età la risposta immunitaria diminuisce: perciò si ricorre a strategie per aumentarne l'immunogenicità assicurando così una migliore protezione contro l'infezione. Una strategia possibile (un'altra seguita è l'aggiunta di sostanze adiuvanti) è aumentare la quantità di antigeni contenuti nel vaccino, cioè delle proteine virali di superficie che innescano la risposta anticorpale (soprattutto le emagglutinine) e che ogni anno cambiano a causa di piccole mutazioni, fenomeno detto "drift antigenico", dando luogo a varianti virali diverse. Uno studio condotto a Houston, Texas, indica che la soluzione dell'aumento degli antigeni nei vaccini inattivati può essere valida per la profilassi nell'anziano.

Emagglutinine anche doppie per ogni ceppo virale


L'influenza è causata da virus di tipo A, con diversi sottotipi relativi alle emoagglutinine e alle neuraminidasi (indicate con H e N rispettivamente), e di tipo B, senza sottotipi. Nei vaccini trivalenti la dose accettata per ciascuna emagglutinina dei tre ceppi virali previsti, in genere un AH1N1, un AH3N2 e un B, è di 15 microgrammi (mcg), in totale quindi 45 mcg. Poiché studi precedenti hanno mostrato che l'aumento oltre questa soglia determina incrementi dose-correlati delle risposte anticorpali sieriche e quindi dell'immunogenicità, nel trial statunitense si è confrontata l'efficacia e la tollerabilità di un vaccino inattivato trivalente contenente 15, o 30, o 60 mcg di emagglutinina per ogni ceppo, nella formulazione del 2001- 2002 (dose massima totale quindi 180 mcg). Dall'ottobre 2002 i partecipanti, 202 anziani tra 65 e 88 anni reclutati dal Texas Medical Center di Houston, sono stati assegnati in modo randomizzato cioè casuale a ricevere l'iniezione intramuscolare di una singola dose del vaccino, oppure placebo.

Più anticorpi prodotti, con buona tollerabilità


E' risultato che all'aumentare delle dosi di antigeni corrispondevano incrementi dei livelli ematici degli anticorpi, dei soggetti con un titolo anticorpale apparentemente protettivo, delle percentuali di anticorpi neutralizzanti rispetto ai tre antigeni. Le dosi erano quindi il principale fattore d'incremento della risposta anticorpale, massima per i 60 mcg; anche il sesso femminile è apparso associato a un aumento (il sistema immunitario subisce influenze ormonali, che declinano con la menopausa ma forse erano recuperate dall'ormonoterapia sostitutiva, aspetto non verificato per il campione limitato), mentre la precedente vaccinazione si associava a risposte minori (probabilmente si trattava di soggetti più spesso con patologie sottostanti, per questo già vaccinati). Inoltre, tutte le dosi sono risultate ben tollerate, rispetto sia a reazioni nel sito d'iniezione sia a sintomi sistemici (quali dolori muscolari o mal di testa), anche se con la dose più alta si sono avute più reazioni locali, però medie e transitorie. Se arriveranno conferme da altri studi, la strategia di potenziare i vaccini inattivati noti e usati da decenni potrebbe dunque essere promettente nell'anziano, specie sotto il profilo della sicurezza, in alternativa a quella più recente dell'aggiunta di sostanze adiuvanti.

Elettra Vecchia



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