Menti malate, non criminali

22 novembre 2006
Aggiornamenti e focus

Menti malate, non criminali



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I fatti di cronaca, soprattutto se cruenti, spostano l'attenzione su alcune realtà fino a quel momento ignorate, mostrandole come un problema su cui intervenire, in certi casi a ragione in altri non del tutto. A volte, infatti, dietro un caso isolato si nasconde un mondo sconosciuto all'opinione pubblica che viene alla luce e riceve la considerazione che merita o necessita, anche se il rischio maggiore è lo stigma sociale. Una fenomenologia del genere si è verificata, per esempio, dopo il delitto di Cogne: dal 2002, infatti, si è tornati (o si è iniziato) a parlare del disagio psicologico vissuto dalla madri e del supporto necessario per superare le difficoltà della maternità.

Rischi del mestiere


Ben lungi dai clamori suscitati dal caso italiano, un caso di omicidio avvenuto di recente negli Stati Uniti, che ha coinvolto uno psichiatra come vittima di un suo paziente schizofrenico, ha sollevato alcune riflessioni. Alcune di queste sono stata pubblicate in un editoriale comparso sulla rivista New England Journal of Medicine e firmato da un esperto di psichiatria clinica. A suo avviso, questo incidente riapre una questione controversa e spinosa sulla potenziale pericolosità delle persone con la malattia mentale, punto critico su cui bisogna trovare un equilibrio tra sicurezza sociale e rispetto delle libertà civili. Un altro rischio, inoltre, sottolinea lo psichiatra, è che un medico che teme il proprio paziente non è in grado di curarlo. Le motivazioni per avere tali paure non mancano. Un documento del Dipartimento di giustizia riporta che il tasso annuale di crimini violenti, ma non fatali, avvenuti in ambito lavorativo, è il 12,6 per mille in tutte le categorie di lavoratori. Tra i medici la quota sale al 16,2, tra gli infermieri al 21,9, passando a categorie più specificamente correlate alla malattia mentale l'incremento è notevole: tra gli psichiatri e gli specialisti di questo settore si arriva al 68,2 per mille e per il personale addetto alla sorveglianza dei malati mentali, anche al 69 per mille.

La malattia non fa sempre la differenza


Il nodo da chiarire è se la malattia psichiatrica sia associata alla violenza e quale sia l'aumento del rischio che ciò accada. D'altro canto, per un paziente essere percepito come un pericolo può essere devastante e compromettente nella prospettiva di avere rapporti sociali, un lavoro, una casa, un ruolo sociale.E' stato osservato che, tra le persone che sono state condannate per omicidio, il rischio nell'arco della loro vita di sviluppare la schizofrenia è del 5%, ben più alto di quanto si può rilevare nella popolazione generale. Ma questi dati possono essere stati inquinati dal fatto che i soggetti ospedalizzati, arrestati o incarcerati hanno maggiori probabilità di essere violenti e con forme gravi di malattie mentali. Conclusioni meno compromesse si possono trarre da studi epidemiologici. In un campione rappresentativo di oltre 17 mila soggetti di cinque comunità americane, è stato verificato che quando c'era il disturbo mentale (schizofrenia, depressione, maggiore, disturbo bipolare) la probabilità di essere aggressivi diventa da due a tre volte più alta. Va sottolineato che si tratta di un aumento del rischio, poiché la maggior parte delle persone con queste patologie non commette azioni aggressive. Anzi, proprio perché i casi più gravi sono rari, in realtà il contributo alla violenza generale nella popolazione è molto contenuto. Il rischio attribuibile alla malattia mentale oscilla tra il 3 e il 5%, molto più basso di quello associato all'abuso di alcol e droghe. Nell'ambito della malattia sono stati, per altro, individuati fattori di rischio indipendente per la violenza, come lo stesso abuso di sostanze, ma anche aver subito violenza, non avere fissa dimora e non aver avuto cure adeguate. A indicare che in queste persone l'aggressività è la risultante di più fattori che agiscono in diversi ambiti della personalità. E' anche vero che non è stata rilevata una differenza significativa di rischio di violenza tra la popolazione senza disturbi mentali e un gruppo di pazienti curati dimessi dall'ospedale.

Sapere per prevenire

In queste condizioni, sostiene lo psichiatra, ampliare i criteri e la soglia clinica per il trattamento obbligatorio può essere controverso, perché non tutti i pazienti sono violenti, ma non si può trascurare che quelli con psicosi, allucinazioni, storie di violenza subita sono a elevato rischio di comportamento violento. Inoltre, una decisione del genere potrebbe scoraggiare chi volontariamente cerca il sostegno e l'aiuto di un trattamento. La tendenza generale è quella di richiedere il trattamento obbligatorio quando non è ben chiaro se ci sia un pericolo immediato per gli altri, ma la consapevolezza del rischio è già uno strumento in più per prevenirlo.

Simona Zazzetta



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