Soluzioni caso per caso

05 gennaio 2007
Aggiornamenti e focus

Soluzioni caso per caso



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Un documento di consensus, promosso dal movimento Giù le mani dai bambini, aveva messo d’accordo molte associazioni e gruppi di esperti su uno dei tanti aspetti importanti della sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD): la diagnosi. Vale a dire il punto di partenza di ogni intervento su una patologia, e sull’ADHD è molto poco ben definito. Lo stesso manuale diagnostico dell'American Psychological Association rimarca nel DSM-IV che: “non vi sono test di laboratorio confermati come diagnostici” per “il Disturbo del Deficit d'Attenzione/Iperattività”.

L’ultima parola al neuropsichiatra


Lo scenario in cui va definita una cura è fin dal principio non del tutto chiaro, e si complica ulteriormente quando i farmaci che andrebbero somministrati sono molecole che intervengono sul sistema nervoso, modificandone i comportamenti. Le opinioni contrastanti hanno ovviamente creato confusione e timori nelle famiglie, nei medici e negli educatori. Ciò che appare chiaro è la necessità di un approccio multidisciplinare in cui si muovono diverse figure: il pediatra, i genitori, gli insegnanti guidati da neuropsichiatri e psicologi. Ma la scelta del farmaco rimane il passaggio più critico. Il più controverso di tutti è senza dubbio il metilfenidato, in commercio in molti paesi europei e negli Stati Uniti, ma non in Italia, dove l’accesso al farmaco avviene per importazione dall’estero previa autorizzazione dell’Agenzia italiana del Farmaco. E per garantirne l’uso appropriato, l’agenzia e l’Istituto superiore di sanità hanno istituito un Registro nazionale, che stabilisce un vincolo tra la prescrizione del metilfenidato e un piano terapeutico di sei mesi definito da un neuropsichiatra infantile presso un centro di riferimento. E oltre a essere personalizzato per ogni bambino, prevede il controllo clinico sempre dallo specialista del centro dopo una e quattro settimane per verificare efficacia e tollerabilità. I controlli proseguono dopo i primi cinque mesi e poi ogni sei mesi. E l’Iss si fa garante della qualità e della veridicità dei dati che vengono riportati. A oggi, quindi solo il servizio di Farmacia di Aziende Ospedaliere, ASL, IRCCS e Centri Specializzati può avere l’autorizzazione dell’Aifa per importare il farmaco e dispensarlo in regime di day-hospital. L’intervento farmacologico va intrapreso solo se indicato dal neuropsichiatra infantile e va spiegato ai genitori, anche per il consenso informato, e al bambino con un linguaggio adeguato all’età.

L’alternativa non risolve


La letteratura sul metilfenidato è decisamente molto ampia, se ne conoscono bene la farmacocinetica, la farmacodinamica, l’efficacia e di recente sempre di più gli effetti collaterali. Questi ultimi sono il motivo del dibattito acceso e delle recenti revisioni volute proprio dalla Food and Drug Administration, per il florido mercato americano di questo farmaco. La Fda infatti chiede che sulle confezioni in vendita negli Stati Uniti compaia un riquadro (black box) che deve invitare a prestare attenzione agli effetti collaterali ai quali si aggiungono i recenti sintomi cardiaci. In alternativa ai farmaci psicostimolanti, ci sono quelli non-psicostimolanti, uno dei quali, l’atomoxetina, è stato approvato nel 2002 dalla Fda e poi dall’EMEA. Ma nel 2005 entrambi gli enti hanno ritenuto opportuno allertare il personale medico sulla comparsa del rischio di pensieri suicidi in bambini e adolescenti in cura. Una metanalisi aveva dimostrato che lo 0,4% dei bambini trattati con atomoxetina aveva avuto pensieri suicidi, cosa che non accadeva in quelli trattati con il placebo o in adulti con ADHD o con depressione. Anche per questo farmaco sono stati riscontrati rischi cardiovascolari e anche in questo caso la Fda ha richiesto alle farmaceutiche interessate di inserire i black box sulla confezione. Qualora dovesse diventare disponibile anche in Italia le procedure di controllo di prescrizione ed erogazione sarebbero analoghe a quelle previste per il metilfenidato.
La questione resta sostanzialmente aperta, e non rimane che analizzare caso per caso tenendo sempre presente che si tratta di pazienti pediatrici e non li si sta curando per un raffreddore.

Simona Zazzetta



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