L’artrite che piega la schiena

01 ottobre 2010
Aggiornamenti e focus, Speciale Schiena in forma

L’artrite che piega la schiena



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di Simona Zazzetta

Svegliarsi con un mal di schiena che ha reso difficile il sonno è un segno che deve sollevare qualche sospetto in più rispetto alla classica lombalgia cosiddetta meccanica. Quest'ultima infatti, si riconosce perché ha un esordio acuto che trova sollievo nel riposo e acutizzazione nel movimento. Ciò che invece deve fare pensare ad altro, è un dolore notturno che, al risveglio, procura almeno un'ora di rigidità della schiena, che migliora con il calore, magari di una doccia calda, o con un po' di moto: campanelli di allarme di infiammazione della colonna vertebrale (artrite) che prende il nome di spondilite e che, se non curata o riconosciuta in tempo, tende a bloccare la schiena, da qui anchilosante.

Ciò che caratterizza questa forma di artrite, oltre al dolore, è la progressività con cui si manifesta il danno strutturale alla colonna, che peggiora nel tempo. L'infiammazione, infatti, inizia a interessare le vertebre danneggiandole nel punto in cui i legamenti si inseriscono nell'osso. Quando inizia il processo di guarigione della lesione, si sviluppa nuovo tessuto osseo che sostituisce quello elastico dei legamenti. Il fenomeno si ripete ogni volta che insorge l'infiammazione con conseguenze sulla mobilità della colonna: «Le proliferazioni ossee tendono a fondere le vertebre fra loro e in 25 anni si perde la mobilità di tratti della colonna» spiega Ignazio Olivieri, del Dipartimento di reumatologia della Regione Basilicata «e in questi casi il danno è irreversibile, poiché le vertebre si uniscono in una lunga colonna ossea, spesso chiamata "rachide a bambù": nei casi gravi o non trattati, la mobilità e la flessibilità spinale possono ridursi al punto che il paziente diventa progressivamente curvo in avanti» puntualizza Olivieri.

Gli esperti convengono sul fatto che è possibile prevenire tutto ciò con una diagnosi precoce, che può arrivare anche in età giovanile, con un esordio tra i 17 e 30 anni. Purtroppo, secondo un'indagine italiana, si arriva alla diagnosi con sette anni di ritardo, eseguita sulla base di lastre radiografiche che evidenziano il danno alla colonna, segno di malattia in fase avanzata. «È fondamentale porre la diagnosi quando l'unico sintomo è ancora solo la lombalgia. Con un sospetto di natura infiammatoria si può procedere con risonanza magnetica che mostra l'infiammazione a livello delle ossa, con ecografia che mostra infiammazione dei tendini, oppure con un'analisi genetica» sottolinea Olivieri. La diagnosi precoce offre un vantaggio importante per evitare sintomi e danni funzionali residui poiché i farmaci oggi a disposizione, se somministrati in fase iniziale, sono grado di modificare l'evoluzione della patologia e impedirne la progressione. «Le line guida proposte dall'Eular, la lega che riunisce tutte le società europee di reumatologia» ribadisce Olivieri «raccomandano di trattare il paziente in prima battuta con farmaci antinfiammatori non steroidei (Fans) e se dopo i primi mesi la terapia non è sufficiente per controllare il dolore, conseguenza dell'infiammazione, si passa ai farmaci biotecnologici anti-Tnf-alfa che agiscono bloccando i mediatori dell'infiammazione e arrestano la progressione della malattia». Per prevenire le potenzialità invalidanti della spondilite anchilosante, è fondamentale riconoscere che è in corso un processo infiammatorio: un percorso terapeutico adeguato e un programma di ginnastica mirata possono garantire al paziente la possibilità di condurre una vita normale.



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